domenica 11 dicembre 2011

Do or do not. There is no try

"Ho dell'ottimo cuoio da vendere a chi vuole farsi le scarpe."

Georges I. Gurdjieff


Non so quanto possa starvi a cuore la progressione. Quando parlo di progressione, ovvio che intenda non la capacità (o la conoscenza) di eseguire migliaia di tecniche diverse (per diverse dovremmo aprire una parantesi piuttosto lunga, poi), quasi che fossimo una sorta di enciclopedia vivente che cataloga ed esegue le più disparate tecniche e le loro applicazioni. Non intendo chiaramente questo. Quando parlo di progressione, per la verità intendo in effetti il suo significato più letterale, quello dell'andare avanti, del muoverci verso un obiettivo, più o meno chiaro all'interno di ognuno di noi. Ecco, mi chiedo quanto vi stia a cuore tale progressione. Perchè in essa, come in molte altre cose nella vita, è possibile scorgervi più piani di comprensione, più chiavi di lettura. Progressione non è appunto sola esclusiva del piano tecnico che la nostra disciplina comporta, e certamente non è assolutamente quantificabile dal numero di tecniche che imparo in palestra o nel dojo ci mancherebbe, e nemmeno la capacità di eseguirle con veloce sicurezza. No, non credo che questa sia vera progressione nel cammino che abbiamo deciso di intraprendere. Perchè l'andare avanti che al sottoscritto sta a cuore, è un andare avanti e in profondità in ciò che è si tecnica, ma nel suo lato più impercettibile, è il cercare di cogliere delle linee guida facenti parte di ogni tecnica e dunque di ogni sua variante, un qualcosa che è presente sempre e comunque, senza il quale è semplicemente impossibile anche solo parlare di fare Aikido. L'obiettivo è progredire verso questo. Vi sono molte strade poi, che ci permettono di perseguire l'obiettivo, certo. Ma ognuna di esse, non inganniamoci, richiede comunque sacrificio, dedizione. Richiede l'ostinazione necessaria a farci scavare e scavare, anche quando non vorremmo occuparcene. E' un impegno e nessuno in nessun tempo ci ha garantito che così non sarebbe stato. Se la progressione ci sta a cuore per davvero, se il nostro è impegno sincero per davvero. Altrimenti non è possibile. Altrimenti non potremmo mai e poi mai avanzare pretese di sorta. Non possiamo davvero credere che l'Aikido sia disciplina a cui è sufficiente dedicare del tempo sporadico e poca concentrazione. Un hobby. Ci si sta ingannando se così è e forse, parer mio, si sta perdendo del tempo da dedicare magari a qualcosa che ci vedrebbe più felici, più realizzati. Si, perchè altra cosa che non ci è stata promessa è l'evitare di venire a patti più o meno ciclicamente con la frustrazione, che questa disciplina ci regala a piene mani. Ma è una frustrazione a ben vedere positiva, è del genere che passa attraverso l'autoanalisi con lo scopo della crescita, del miglioramento continuo. Dunque ben venga anch'essa. Tutto questo continuo lavorare su di sè, tutto questo procedere passo passo, con fatica, alla ricerca di un qualcosa che ci si è guadagnati per davvero, con le nostre forze, il fisico come l'intelletto, tutto ciò è la progressione che a me sta a cuore. Da qui è possibile emergere, dopo tanto scavare, più consapevoli, più "grandi". E' giusto che vi dica che non credo al motto reso famoso da non so chi e che recita più o meno: "L'Aikido è per tutti...". Non ci credo, a meno che non si voglia sottolineare l'importanza enorme, presente nella seconda frase del motto, che infatti recita: "... ma non tutti sono per l'Aikido". No infatti, non è per quelli che cercano una strada facile. Perchè una strada facile per progredire, semplicemente non esiste.
Recentemente mi è capitato di rivedere Karate Kid. Quello bello intendo, con Morita e Macchio. Una delle scene chiave (no, non del film, una delle scene chiave per me), anzi direi LA scena chiave, è appena poco prima che il protagonista si impegni in quello che negli anni è assunto a vero e proprio mantra per chi, di Arti Marziali, non ha mai capito una sega (il celeberrimo metti, togli blablabla...).
Ecco se vi ricapita, prestate attenzione a cosa il maestro Kesuke Miyagi dice all'inconsapevole Daniel san, quasi come fosse un segreto, ma di quelli importanti, da dire raccolti, accovacciati: "Walk on road, hm? Walk left side, safe. Walk right side, safe. Walk middle, soon or later, get squish just like a grape. Here, Karate, same thing. Either you Karate do 'yes', or Karate do 'no'. You Karate do 'guess so', just like grape. Understand?". Si.

martedì 22 novembre 2011

Tu non sei speciale

"Non nello spazio devo cercare la mia dignità,
ma nell'uso regolato del mio pensiero.
Non otterrei alcuna superiorità col possesso
di terre: con lo spazio, l'universo mi comprende
e mi inghiottisce come un punto; col pensiero,
io lo comprendo."

Blaise Pascal


Forse dovremmo smettere eh? Che ne dite? Smettere di presumere sugli altri. Smettere di pensare che ciò che abbiam capito noi, lo abbiamo capito noi soltanto, e il resto del mondo è stupido e inconsapevole. Perchè, quando ci si trova difronte ad un compagno d'allenamento, a qualcuno che come noi ha deciso di intraprendere la Via dell'Aikido, indipendentemente dal grado, dallo stato sociale, dalle sue esperienze che non conosciamo e che mai conosceremo veramente, dobbiamo per forza far sì che in noi si faccia largo il subdolo pensiero, quella convinzione stupida e ottusa che ci fa sentire superiori, che ci obbliga a voler "dimostrare" chissà che, di esser più bravi comunque, del voler a tutti i costi "dargli una lezione" su che cosa l'Aikido veramente è?
E se fosse tutto sbagliato? E se la persona non fosse così stupida come il nostro presumere vorrebbe? Sì, una persona prima di tutto, non un kyu, uno yudansha o qualsiasi altra parola "inventata" per racchiudere l'essere umano in un limite, che lo definisca e lo intrappoli, in un "mondo fittizio", che se perde di questa consapevolezza ci mette a rischio, un grande rischio che la pratica di questa disciplina (che io ritengo meravigliosa e ancorché perfetta, forse), dovrebbe invece allontanare con tutte le sue forze?
L'Aikido dovrebbe metterci in ascolto, non essere un arrogante monologo delle nostre fissazioni. Ce lo insegna dal primo momento (se non lo ha fatto come converrebbe, nostra madre prima), anche attraverso la stessa didattica. Ci insegna che uke non-è-stupido, ma che anzi, grazie alla sua intelligenza, al suo muoversi più razionale possibile, possiamo costruire la tecnica che ci permetterà di fare dell'Aikido. E cos'è uke se non una persona? Dunque nel mondo fittizio del dojo, dovremmo accorgerci e non sorprenderci, nel ritrovare la rappresentazione di quel che ci circonda nel reale. Andare contro questo, è andare contro all'Aikido stesso. Perchè non comprenderlo, perchè pensare che sia corretto umiliare e svalutare, anche con il solo pensiero, chi (in un continuo processo di mutevole scambio) ci permette di crescere? Nessuno di noi è speciale e tutti lo siamo, con le nostre singolarità. Ma siamo sempre persone, anche se siamo solo deshi, shidoin o persino shihan e questo è un fatto che va sempre rispettato.
Qualche anno fa lessi un libro di Taisen Deshimaru Roshi. Poi lessi Fight Club di Palahniuk. Che cosa accomunerebbe i due? Fino ad allora, pensavo nulla. Ma smettere di imparare è morire.
L'uno parlava dell'autoperfezionamento, vera anima del Budo, atto di crescita verso la suprema consapevolezza del "se", del divenire "qui e ora". L'altro negava esplicitamente tutto ciò, ed attraverso il suo personaggio compiva il percorso contrario, vero sprofondo nell'autodistruzione assoluta. Poi, proprio nelle ultime pagine, nel punto più alto e più basso al contempo della narrazione, scrive: "Tu non sei speciale. Non sei nemmeno merda o immondizia. Tu sei. Tu sei soltanto e quello che succede succede soltanto". Zen. Come Deshimaru.

sabato 12 novembre 2011

Chiarezza d'intenti

"Being able to perform a million jiu-jitsu techniques won't make you a good instructor. Although it is very common to see an instructor teach random techniques, this approach will definitely not help students understand what they are doing."

Rigan Machado


Bisognerebbe averlo, un presupposto. Onde evitare fraintendimenti di sorta. Quando si "affronta" la pratica dell'Aikido, quando si affronta anche una sola tecnica, tale presupposto è fondamentale. E più ci si addentra nella complessità tecnica e più è impossibile farne a meno. Dunque che cos'è questa premessa? Questa premessa è la chiarezza d'intenti.
Cosa sto facendo sul tatami, quando mi alleno? Perchè faccio uno spostamento specifico, invece di un altro? Perchè inizialmente non ci si può muovere liberi, perchè uke non può attaccare come gli pare? Perchè il tutto deve assumere un senso logico. La logica è quella che ci detta cosa è sensato fare e cosa è solo un inutile spreco di energie. Sono d'accordo, non sempre è così facile e limpido riuscire a scorgervi questa benedetta logica, nell'esecuzione di un kihon no kata, ed è infatti lì che dapprima dovrebbero concentrarsi tutta la nostra attenzione e i nostri sforzi. Perchè compiere un tenshin, se questi davvero non mi è utile? Ma sappiamo realmente che cos'è un tenshin? E "utile" in che senso? Si, occhei, un tai sabaki che ci viene insegnato sin dalle primissime ore di pratica, ma il perchè si ritiene "funzionale" (ehi, dove già ho sentito questo discorso?), durante la costruzione tecnica dovrebbe essere premessa fondamentale, talvolta ahimè tralasciata. Appunto. Il movimento, il gesto, la postura, nascondono sempre (o dovrebbero nascondere), una motivazione ben precisa, giustificazione fondamentale del suo stesso esistere, assolutamente lontana dalla mera abitudine/consuetudine. Quando non vi è risposta, quando si fa quel che si fa, perchè così è (facendo un po' spallucce), allora ci si dovrebbe fermare ad interrogarsi attentamente del perchè.
L'esempio del tai sabaki di sopra, è semplice e diretto, per chi ha qualche anno di pratica. Diviene sicuramente più "drammatico" (l'esempio), quando ci si sposta verso qualcosa di più complesso, anche se per il sottoscritto non si tratta di spostarsi orizzontalmente verso qualcos'altro, ma al limite di addentrarsi più profondamente, dunque in verticale, verso lo specifico in oggetto. Dicevo, diviene drammatico nel momento in cui si propone uno studio sui principii (ah 'sti benedetti principii), con l'ausilio di un esercizio concreto. Ecco, se dovessi decidere di fare una cosa del genere (e più di una volta mi è capitato e mi capiterà di decidere di fare una cosa del genere), devo essere il più chiaro possibile, verso chi mi sta ascoltando. Perchè devo necessariamente presupporre che chi mi sta ad ascoltare non conosce le mie ragioni e che dunque starà a me spiegarle. Ed ecco che la chiarezza d'intenti iniziale, come presupposto diviene vitale, non solo per la riuscita dell'esercizio, ma per tutta la formazione futura, dalla quale dovremmo muovere per crescere ed evolvere nella nostra pratica. Mancata questa, mancato lo scopo preciso del mio esercizio (quale esso sia), mancata l'opportunità di capire e dunque maturare.
Vero è anche che per essere chiaro io, a mio supporto diviene imprescindibile una certa confidenza in termini, perchè tanto è importante essere chiari, tanto diviene utile la proprietà linguistica e la giusta didattica alla divulgazione dei concetti. E spesso accade l'opposto. Spesso è l'assenza di questa didattica a motivare "lo studio" (davvero?), di dieci(!) e più tecniche diverse, all'interno di una sola ora di pratica. E, cosa che produce ancora più perplessità, senza neanche lo sforzo di ricercare in esse una continuità di analisi, orientata proprio verso i principii (ebbastadaii) onnipresenti.

sabato 29 ottobre 2011

L'Ikkyo di Yamaguchi

"It is only when I lose contact with the painting that the result is a mess. Otherwise there is pure harmony, an easy give and take, and the painting comes out well."

Jackson Pollock


Osservo i filmati su youtube. Giusto uno o due, non ho intenzione di farmi prendere da alcun demòne. Quelli che paiono ai miei occhi di maggior interesse, non sono poi molti in effetti. Tra questi vi sono i pochi di Yamaguchi Seigo. E con Yamaguchi Seigo ho un legame a distanza, nel tempo e nello spazio, che molte volte ho considerato contradditorio e non solo. Se da una parte ne riconoscevo l'iconoclastico stile (parola che si appiccica all'Aikido come sapone su una superficie liscia e verticale), dall'altro trovavo molto difficile (i primissimi tempi in cui ho calcato il tatami), vederne tutta questa genialità.
Ma questo era un mio problema, come sempre. Un problema legato sopratutto ad aderenza a "modelli" per me molto distanti da questo curioso Shihan. Voglio dire, il mio "esempio da seguire" per anni era stato Christian Tissier (e non che non lo sia più per carità, solo ora distinguo ciò che è appunto esempio estetico ed interpretazione da ciò che invece è il mio interesse primario, contenutovi in esso), e nonostante fossi a conoscenza del fatto che fu uno degli allievi che più sentiva debito di gratitudine per l'insegnamento ricevuto direttamente dal maestro di Tokyo, davvero trovavo i due diversissimi nella loro personale espressione. E a ben donde (e ci aggiungo pure un "per fortuna"). Perchè? Perchè a Christian Tissier sarà capitata molti anni or sono la stessissima cosa che è capitata al sottoscritto (con questo non sottintendo null'altro che ciò che ho scritto, ovvero la possibilità che a lui sia venuto da pensare ciò che è venuto da pensare a me, e basta).
Ha saputo distinguere l'aderenza di forma dall'aderenza di contenuto. I modelli a cui si deve riconoscere tale ruolo possono pur sempre essere gli stessi, ed inizialmente si potrà anche esserne affascinati dall'immagine (esteriorità che per prima ci colpisce, sopratutto se siamo neofiti), ma dopodichè si deve abbandonare tutto questo, allontanarsi dal rischio stereotipato della riproduzione di uno stile che stile in effetti non è, ma sola manifestazione fisica dell'Aikido di un particolare soggetto, che non "imita" più il suo maestro, ma fa pura arte, attraverso i mezzi che lo stesso gli ha lasciato. Ecco perchè ora "riconosco" in Tissier, Yamaguchi, mentre ieri tutto questo mi pareva lontanissimo.
Questo discorso fila via sulla stessa strada per cui, ad oggi, posso tranquillamente ammettere di avere molti modelli/maestri, ma non seguirne esteticamente nessuno (e nemmeno mi importa). Certo, esiste il kihon no kata, che è pur sempre la base che ci assicura logica e architettura tecnica, ma il dovere di chi persegue l'Aikido come arte è certamente quello di spostarsi oltre questo, abbandonarsi oltre il proprio limite (esattamente come concretamente ci capita nel ruolo di uke), per aprirci alla "sostanza", la pura armonia, per fare finalmente Ai ki do, dove l'ultima particella di questa esotica parola assume, in conclusione, il vero senso che le spetta.

domenica 16 ottobre 2011

Beatles vs Rolling Stones

Osservate il video che si trova a questo indirizzo prima di continuare.

E' un'idea ridicola, lo sò. Eppure il canale di you tube ne è pieno (questo vs quello, Beatles vs Rolling Stones, Hulk vs The Thing e via discorrendo). Ora, non sarebbe poi idea così ridicola invece, se ci si sforzasse ad esser un po' più onesti. E per onestà considero sia quella dei direttamente coinvolti (o comunque di chi ne ha deciso il titolo), e noi dall'altra parte che stiamo a guardare e, inevitabilmente, a giudicare. Ed è proprio il giudizio ciò che più mi interessa, l'impressione che un video del genere ci lascia, piuttosto che la performance tecnica stessa dei protagonisti (anzi, del tutto priva di interesse per il sottoscritto).
La prima cosa che salta all'occhio, è l'assoluta inadeguatezza della persona che indossa la tradizionale hakama (segnale tangibile che ci dice che egli è l'esperto di Aikido), a dispetto di chi invece è presente con il solo keikogi (dunque, per esclusione, il judoka). Inadeguatezza perchè, nonostante i reiterati tentativi, il judoka proietta il "nostro rappresentante" più e più volte, senza particolare difficoltà.
Dunque la conclusione immediata alla quale si potrebbe giungere (visti i commenti prontamente cancellati), che è pure la più superficiale (ma su questo tornerò dopo), è che a vincere (eh certo, se sono "contro") è inequivocabilmente l'esperto di Judo, e conseguenza di quest'ultimo pensiero ma direttamente deducibile, l'Aikido non funziona, se non in contesti dichiaratamente accordati precedentemente alla pratica stessa.
Ma è così davvero? Se così fosse, ci si dovrebbe a questo punto domandare se vale la pena uno studio così lungamente protratto per decenni, che non sia in realtà una totale perdita di risorse e tempo personali (il presupposto di tale assioma è, ovviamente, che si veda l'Aikido come espressione del Budo e non olistica pratica volta al solo benessere fisico dell'appassionato praticante, per questo vi sono altre discipline, addirittura didatticamente meglio strutturate per il raggiungimento di tali obiettivi).
E la conclusione meno immediata? Come sempre, è bene fare capo al contesto. Ed il contesto cos'è in effetti? Il contesto è dichiaratamente 'sportivo', quindi non rispondente per fini, a quello che dovrebbe essere invece l'obiettivo stesso dell'allenamento, o meglio di un buon allenamento. Ci si chiede mai il perchè l'Aikido si allena così? Perchè nella specificità stessa della pratica sul tatami, si sia deciso (per mezzo di un processo di sperimentazione didattica durata decenni, naturalmente), che l'allenamento dei princìpi e dell'intero bagaglio tecnico proprio dell'Arte di Ueshiba, si sviluppi con questo tipo di pratica, piuttosto che un'altra? Perchè è un sistema complesso e come tale ha bisogno di "regole" che ci permettano uno studio approfondito, senza mai (si spera) disattenderne gli obiettivi, che vanno invece rincorsi attraverso la messa in pratica (con la propria tecnica, il proprio spostamento, la propria globale costruzione) dei princìpi che la fanno letteralmente esistere. E se "intorno" non vi è questa struttura, non vi sono le premesse, come è possibile pensare di fare dell'Aikido? In un randori "sportivo" di Judo, si fa del Judo sportivo, non dell'Aikido (non negando aprioristicamente la possibilità che in esso si possa anche "fare", ma nei soggetti protagonisti del video non ho scorto nè intenti nè, ragione ancor più pertinente, capacità). Parafrasando lo stesso Tissier, non posso presentarmi ad una partita di tennis, pretendendo di giocare a football. Dunque, al di là degli intenti (provocatori o meno), i due cosa in effetti stanno facendo? L'uno fa del Judo, all'interno di un contesto che conosce piuttosto bene (base del suo allenamento quotidiano), l'altro si sforza di parlare una lingua incomprensibile in tale situazione, dimenticandosi completamente di dove è, e che cosa in effetti sta accadendo, finendo inesorabilmente per non fare Aikido, ma tentare del bruttissimo Judo. Obiettivo che dire disatteso, è puro eufemismo. Ed io ho sempre preferito gli Stones.

lunedì 10 ottobre 2011

You never know...

"You never know with fighting how things are going to turn out. I try not to worry about that, I worry about the things that I can control."

Kenny Florian


In una certa misura, non è affatto conveniente preoccuparsi di ciò che non si può effettivamente controllare.
Nello specifico, all'interno di un sistema, è comune ritrovare l'utilizzo di una didattica che risponde a domande ben precise e definite, ma che, adottando una visione più ampia e distaccata dal particolare, sarà facile identificare come del tutto insensata, proprio se incastrata, bloccata in tale sistema, come metodo che risponde al particolare con (indovina un po'?) il particolare.
Mi spiego meglio (forse): è del tutto insensato pensare di studiare un sistema di "difesa" (come nel nostro caso, sempre che si voglia accettare questo tipo di classificazione, che per comodità ora prendo per buono, ma che in effetti rifiuto categoricamente, e prima o poi mi impegnerò a giustificare tale affermazione), che fornisca delle risposte pre-confezionate a particolari situazioni di combattimento, ovvero il più classico dei:
"A tale attacco corrisponde sempre tale tecnica."
MACCOSA??!! (si, sono un fan di Nanni Cobretti e i "maccosa" sono presenza costante del mio allenamento).
Sarebbe un po' come l'ammettere candidamente di conoscere il futuro, essere dei maghi e possedere la sfera di cristallo, o più prosaicamente rispondere ad una domanda che ancora nessuno in effetti ci ha posto. Sempre che la nostra risposta sia poi giusta. E visto che non conosciamo la domanda (perchè è così), la nostra risposta sarà, nel migliore dei casi, del tutto fuori luogo.
Dunque che si fa? Ci si preoccupa appunto, solo di ciò che effettivamente si può controllare. Ed è qui che l'Aikido ci viene in aiuto.
Questi, come sistema sorretto da princìpi e non da tecniche (che sono la didattica, il mezzo, fondamentali ma di certo non il cuore della nostra Arte), non si preoccupa se non di questo, ovvero del controllo, o meglio della ricerca di tale controllo.
In poche parole, non deve esistere un'impostazione che esige di rispondere ad un attacco in modo univoco, ne tanto meno la pretesa che questi sia un qualcosa di fisso ed immutabile, perchè così era e così sarà sempre. Non deve accadere, almeno non in qualcosa che è in costante evoluzione.
E l'Aikido in quanto Arte Marziale, mettiamoci l'anima in pace, lo è.
Attraverso lo studio profondo, dovremmo scoprire come affrontare una situazione che ci è ignota per forza, ma che è possibile indirizzare verso un controllo da gestire, ma solo nel momento stesso dell'azione, non prima. Certo, facile a dirsi. Sicuramente meno rassicurante che il pensare che vi sia una qualche possibilità di difendersi da uno shomenuchi, invece di trattarlo per quello che in effetti rappresenta (uno studio su una traiettoria e le possibilità di controllo che su questa stessa si aprono), e non la simulazione di un improbabile "attacco da strada" (questa espressione si, che mi fa sempre sorridere).
Meglio non rispondere: ho fatto 2 etti e mezzo, lascio? Se la domanda è: ciao, come stai?
E voi ovviamente, non siete un salumiere che di nome fa Elio.

mercoledì 28 settembre 2011

La ricerca della verità...

"Tutto ciò che è quasi vero, è in realtà completamente falso, ed è l'errore più pericoloso in cui si possa incorrere, perchè più si va vicino alla verità e più probabilità ci sono di andare del tutto fuori strada."

Henry Ward Beecher (1813-1887)

Quanto conta per un praticante di una qualsiasi arte marziale (non necessariamente l'Aikido), la ricerca della verità? E poi, che cos'è questa benedetta verità?

Due premesse, la prima: tutto ciò che dirò in questo blog non rispecchia quello che è il pensiero della federazione, della scuola e dei maestri a cui appartengo e discendo. Dunque mi assumo la completa responsabilità delle affermazioni che da qui in poi farò.
La seconda: nonostante possa così apparire ai più giovani ed inesperti, ciò che dico non è nulla di trascendentale, ma anzi è il ribadire un concetto proprio di molti, e pure da moltissimi anni (secoli, per la verità, giustappunto). Dunque (contraddicendomi con quanto detto al punto primo, alla faccia della coerenza) di paternità nulla, solo la consapevolezza di essere su un sentiero già percorso da altri prima di me.

La ricerca della verità dicevo. Per un praticante di arti marziali, anzi no, per un artista marziale (lo so che la differenza è sottile, ma c'è), dove si colloca tale bisogno? Esiste davvero tale bisogno? Dipende. Dipende dal punto stesso in cui si è arrivati, dipende dalla capacità critica di autoanalisi che noi stessi, ad un certo punto, dovremmo sentire di dover fare (esigenza d'obbligo, direi). Per onestà, verso se stessi, prima ancora che verso gli allievi (che beneficeranno di riflesso, di tale correttezza).
E l'onestà di un artista, impegnato sulla strada dell'Aikido, è ancor più dolorosa e difficile di quanto si possa pensare. Perchè significa venire a patti con quella che è più di una forma, significa iniziare a domandarsi della logica imprescindibile che costituisce l'intera struttura (ossatura) della nostra forma, significa discernere e comprenderne veramente i principi su cui si fonda e si muove (con buona pace di ogni tipo di esotica suggestione), significa questo, per un artista marziale, la ricerca concreta della verità.

Spesso, molto spesso, ci viene chiesto se ciò che facciamo funziona. Se l'Aikido funziona per davvero.
Ed io rispondo che sì, certo che funziona, ma forse quello che intendo io normalmente con questa affermazione (in cui credo profondamente), non è quello che la maggior parte dei neofiti dell'Aikido intendono, o credono di intendere.
Perchè l'Aikido che funziona, per questi ultimi, è un immaginifico scenario dove pseudo samurai combattono e sgominano i più temibili aggressori, il tutto attraverso l'uso delle forme che hanno così diligentemente appreso in palestra. Che è quanto di più lontano da quello che invece intende il sottoscritto, per l'appunto. L'Aikido funziona nella sua forma base, perchè così deve essere, pena una colossale perdita di tempo e dispendio inutile di energie. Ma va ben intesa però. Funziona, ovvero è funzionale nella sua stessa costruzione e svolgimento, perchè ciò che apprendiamo in effetti non è una forma per combattere contro un avversario, quanto piuttosto una forma e una particolare pedagogia che ce lo insegna e fa applicare, funzionale all'aprirci la strada verso la comprensione di un principio, quello sì (va da se), fondamentale per il vero Aikido, fuori da ogni costrutto e da preconfezioni di sorta.
E', come dicevo, un particolare metodo pedagogico d'insegnamento, ben radicato all'interno di una cultura (quella giapponese), così profondamente legata all'estetica pura, così diversa nella finalità ultima da quella occidentale. L'Aikido stesso infatti, non può prescindere ne allontanarsi da questo modello, ma sta a noi occidentali comprenderlo ed affrontarlo, oltre l'ostacolo spesso scoraggiante della cultura, per rendere anch'esso funzionale ad uno scopo ben preciso (Descartes lo sapeva bene), che non è assolutamente "solo" bello, ma appunto vero perchè divenuto naturale (in accordo con la loro di estetica che persegue questo fine, e non la nostra).
Quando pratichiamo il nostro "katatedori ikkyo" sul tatami, dovremmo essere tutti un po' più consapevoli che si è alle prese con una forma, e che di questa alla fine, scavata a fondo, ci interesseranno per davvero i principi che la governano, piuttosto che il cercare di piegare il braccio, costi quel che costi, a quell'uke che non ne vuol sapere di collaborare...

sabato 17 settembre 2011

L'Arte del Combattere...

Cosa vuol dire saper combattere?
Vuol dire domandarsi che cosa davvero stiamo facendo. Vuol dire saper scansare le false lusinghe, saper bene la proporzione delle cose, ed essere ben svegli, anche quando agli altri sembra che si stia dormendo.
Saper combattere vuol dire non dar mai per scontata la fiducia che ci viene accordata, ma anzi considerarla il bene più prezioso, coscienti che nulla di tutto questo è, e mai sarà, merce di scambio. Vuol dire credere, credere con tutte le forze in qualcosa e sforzarsi sino all'ultimo cercando coerenza, senza tradirsi.
Saper combattere vuol dire non avere paura della caduta ne da quanto in alto si cadrà, ne di cosa penseranno gli altri nel vederci cadere, perchè la vera forza, il combattere sul serio, lo dimostreremo nel momento e nella velocità con cui ci rialzeremo e se ciò non sarà possibile, sorrideremo con veemenza alla sorte avversa.
Saper combattere vuol anche dire ammettere di avere paura, ma non per questo perdersi in essa, anzi stringere denti e pugni con la determinazione di chi vuol dominarla, la paura.
Saper combattere vuol dire amare, amare per davvero, al punto che il sacrificio non è più opzione possibile. Vuol dire credere nella verità e per essa non esser disposti alle menzogne, perchè vivere nella verità è caratteristica dei soli uomini saldi. Ma vuol anche dire capire l'attimo in cui abbandonarsi, perchè la vera resistenza è quella di chi è disposto a perdere qualcosa di sè, per un risultato più grande. Vuol dire evitare l'egoismo, capace solo di renderci piccoli e ciechi di fronte alle porte che si spalancano davanti a noi.
Saper combattere infine, vuol dire non capire tutte queste cose, ma sentirle per davvero, come se fossero nostre sin dal primo passo che mai abbiam fatto e che per sempre faremo.