domenica 21 settembre 2014

Impegno

In alcune scuole classiche di arti marziali (dette koryu), agli apprendisti che avevano intenzione di entrarne a far parte, veniva proposto il Keppan, letteralmente 'patto di sangue', dove i futuri allievi si impegnavano al rispetto di alcune rigide regole per essere accettati formalmente ed introdotti alla disciplina e ai 'segreti celati nella tecnica', a cui solo il vero discepolo era dato accesso.
Il patto si suggellava attraverso la firma con il proprio sangue su un documento (incidendosi con una lama sul braccio o sul dito), detto kishomon.
Era non solo una formalizzazione attraverso un contratto, ma un vero e proprio rito di passaggio, dove il soggetto che lo attraversava, accettava completamente di cambiare il proprio essere, da ciò che era un tempo, ad un nuovo sé, dedito corpo e anima (il sangue simboleggiava la consegna dell'intero individuo alla scuola e al suo maestro/capostipite), alla pratica dell'arte.
Questo genere di accordo, serviva a testimonianza di un impegno che era vitale per la sopravvivenza della scuola stessa: così infatti si riduceva la possibilità che 
gli insegnamenti del maestro si disperdessero nel tempo, mantenendone intatti tradizione e tecnica, chiarendo immediatamente il grado di responsabilità e serietà elevatissime richieste all'allievo.


Con l'introduzione del Budo moderno (Aikido, ma anche Karate-do e Judo), il keppan/kishomon è andato via via scomparendo, pur mantenendo almeno inizialmente un carattere elitario nella scelta di chi doveva e poteva accedere alla scuola (sia Ueshiba che Funakoshi e Kano, selezionavano coloro che erano 'adatti' culturalmente, ad apprendere le rispettive discipline). Chiaramente, la predisposizione all'apertura e alla diffusione universale dei moderni Budo, faceva emergere immediatamente la contraddizione con le antiche scuole e i suoi metodi di affiliazione.
Una contraddizione costituita fondamentalmente dall'inevitabile ricerca di un bacino sempre più vasto di praticanti, a discapito di una qualità che era principalmente determinata dall'impegno dell'allievo che non aveva remore nell'abbracciare il keppan.
L'odierna diffusione mantiene comunque in modo 'naturale' la distinzione tra chi è amatore e colui che, nonostante, tende incessantemente alla professionalità nel proprio rapporto con la disciplina personale, e l'arte come metodo di accrescimento.

domenica 26 gennaio 2014

Kokoro

"Non c'è nulla di più difficile
che il non ingannare se stessi".

Ludwig Wittgenstein


Come tutto, anche i sistemi comunemente raccolti sotto la parola-ombrello 'arti marziali', non sono privi di autoinganni.
Una concessione in parte dovuta alla necessità pedagogica, ma che impone una vigilanza costante, perché non prenda il sopravvento, non divenga un mondo svuotato da tutto il vero, per il solo appagamento fine a sé stesso, il più grande degli inganni in questo genere (sistema chiuso).

Ma in origine, in origine i sistemi di tal tipo erano pensati, costruiti, per dialogare con il mondo circostante attivamente, per necessità, senza sovrastrutture a sovrapporsi l'una all'altra, fino a far sparire il complesso originale, a confondere necessità/scopo/funzionalità con altro, quale formalismo prima ancora che cultura, dalla quale l'arte stessa si forma e ne rimane inevitabilmente influenzata.

Recuperare questa originale funzionalità, non significa però essere particolarmente tradizionalisti (anche perché l'Aikido non è un'arte marziale tradizionale), ma andare diametralmente al suo opposto, significa rispolverare meccanismi che nel corso degli anni - dall'accavallamento di strutture non necessarie - si sono calcificati al punto di arrivare a pensare che tradizione e formalità siano il cuore pulsante, cuore che rischia così di cessare di battere del tutto.

Recuperare significa prendere coscienza degli autoinganni inevitabili, ridare agli stessi la giusta proporzione e legittimità perché il sistema funzioni, nella prospettiva di scuotere un organismo quasi al collasso.
In definitiva, si chiede di far riprendere a battere questo vero cuore nascosto, spogliandolo il più possibile, per tornare a dialogare con il mondo di fuori, non più circoscritto e quindi confinato ad un'area fittizia, ma senza limiti e obbligato all'interazione come era in origine, appunto.

Questo si deve richiedere oggi a chi promuove l'Aikido: limpidità, onestà e piena consapevolezza, capirlo dritto fino al cuore, non tanto filosofico (che per inciso, per il sottoscritto è ancora lontanissimo), ma pratico e dunque, strettamente concreto.