giovedì 26 aprile 2018

Differenze nella pratica del Budo, tra Giappone e Occidente

Quella che segue è la trascrizione* in italiano del discorso fatto da Jordy Delage (Differences Between Japanese & Western Budo Practice, dal minuto 4:07), proprietario della Seido - Aikido & Kobudo Equipment e praticante di lungo corso di Aikido in Giappone.

Nulla di nuovo per chi frequenta il tatami del corso di Carmagnola, solo 'sfrutto' le parole autorevoli del protagonista del video per sottolinearlo ancora una volta, perché ne abbiate conferma da una voce che non è per forza la mia.

*[ Due parole sulla trascrizione/traduzione: in verità non lo è. Essendo in forma colloquiale, ho preferito farne un adattamento, dove naturalmente non manca qualche aggiustamento per rendere il discorso scritto scorrevole e comprensibile, evitando o annullando alcune espressioni gergali o ripetizioni eccessive. Buona lettura!]


"La raccolta di tecniche e l'idea che la conoscenza di molte tecniche renda più bravi, in realtà non so davvero da dove salti fuori, ma è specifica dell'occidente: in Giappone non è il quante tecniche conosci, ma il come esegui le tecniche che conosci.
Gli insegnanti che provano a mettere in pratica questo proposito cercano di trasmettere per esempio come 'entrare' in modo corretto - irimi nell'Aikido - attraverso i princìpi, non le tecniche, di conseguenza la loro volontà è quella di insegnare davvero poche tecniche, in cui studiare e trovare questi princìpi; nella relazione che si costruisce con questi maestri durante le lezioni, più ci si concentra su questo nello specifico e più si migliora davvero nell'Aikido in generale, dando infine al praticante la consapevolezza di un uso migliore del corpo per avere una migliore attitudine (shisei).
Beh, è un'esperienza che davvero si dovrebbe provare direttamente. Se si ha l'opportunità di venire in Giappone si potrà constatare che in una lezione probabilmente si eseguiranno tre, quattro, forse cinque tecniche in un'ora e stop; non si faranno più di cinque tecniche in un'ora, e molto probabilmente sempre con lo stesso compagno, perché solo così sarà possibile iniziare a conoscere il partner e solo dopo dieci, venti, trenta minuti si potrà cominciare a non pensare più a se stessi in termini di performance, senza che la mente paralizzi la pratica riflettendo eccessivamente.
Penso che il modo dei giapponesi di vedere le arti marziali, specialmente nel Budo, è più questione di sensazioni: pratica, pratica, pratica delle stesse tecniche ancora e ancora, piuttosto che collezionare un numero alto di tecniche diverse; divenire un esperto tecnicamente riguarda davvero la pratica in questo senso, e loro non parlano... non parlano di religione, non parlano di filosofia confondendola con i princìpi... niente di tutto ciò, solo insegnano, mostrano la tecnica, richiedendo al praticante di ripetere la stessa cosa per dieci, quindici minuti. Ogni cosa è basata sul concetto del dover praticare tanto per migliorare davvero.
Due ore di pratica in Francia probabilmente equivalgono a mezz'ora di pratica in Giappone.
La prima volta che sono andato all'Hombu dojo a una lezione di un'ora pensavo: "un'ora, ah, sono abituato a seminari di due, tre, quattro ore di pratica"... ero letteralmente morto dopo un'ora all'Hombu! Con l'insegnante che non parla, mostrando giusto qualcosa come quattro tecniche, questo effettivamente significa allenarsi per più di cinquanta minuti! Questo è davvero diverso rispetto a un seminario che si può fare in Francia".



Si potrebbe obbiettare, a lettura conclusa, che la prospettiva qui sia piuttosto limitata, infatti: non è detto che il corso e gli stage frequentati da Delage in Europa in gioventù, siano il modello generale e standard di quello che avviene in Europa, così come non è detto che il modello dell'Hombu con conseguente metodo di insegnamento e allenamento valga per l'intera isola giapponese (infatti così non è).
Fermo restando il punto di partenza che mi ha spinto a scriverne, però: c'è una ragione ben specifica per cui, per me, rimane costante lo sforzo e la ricerca nel mantenere una rigida metodologia di allenamento, e la ragione sta in larga parte nelle parole qui sopra.

A presto.

venerdì 20 aprile 2018

Lo stato dell'arte?

Sono alcune settimane che sulla mia home di facebook vedo comparire video più o meno spiritosi di sedicenti maestri che 'dimostrano' incredibili capacità energetiche.
Opportunamente messi alla prova da propri allievi, inscenano una serie di performance difficilmente ascrivibili al regno del tangibile.
Sotto ai medesimi video una prevedibilissima ridda di battute, da parte perlopiù di praticanti di aikido (i post sono di altrettanti aikidoka, eh), derisioni anche giustificatissime di quello che è un evidente spettacolo più vicino alla suggestione indotta pericolosamente, che a un comune embukai, o a una competizione vera e propria.
Ora. Non è mia intenzione cercare di comprendere quello che succede dentro ai video sopracitati (in alcuni casi valeva la pena farlo e l'ho fatto, per la maggior parte no, per amore di Lapalisse).
Sono decisamente più interessato a quello che è il ragionamento che sta dietro a chi i video li posta. E pure, di misura, anche a quello che pensano i vari commentatori di se stessi.
Lo sono per via del numero esponenzialmente crescente di tali video e della regolarità con cui compaiono.
Perché?
Perché, per esempio, non ho mai visto nessuno tra i miei contatti postare il video qui sotto?
Penso, senza tanti fronzoli, che le cose siano affatto correlate, e che tutto ciò vada a consolare il bias di una comunità che sempre di più perde di convinzione nei propri mezzi, nelle proprie capacità tecniche al punto tale che è decisamente più facile concentrarsi su uno spettacolo triste, piuttosto che affrontare la possibilità di essere protagonisti di un altrettanto spettacolo triste.
Che senso ha questo post? Indurre alla riflessione, se possibile, il più possibile, sullo stato della nostra arte, lasciando il corollario dragonballiano all'egotismo di qualcun altro.