sabato 6 aprile 2019

The least effective martial art in the world (almost).

Sapete quale è la disciplina orientale più sbertucciata dalla comunità internettiana di cultori delle arti marziali? No, non è l'Aikido, l'Aikido sta giusto un posto sopra però, dunque non c'è da stare allegri. La più derisa, ma giusto di un soffio, è il Tai Chi. Poi, per strani scherzi del destino, capita che un praticante di Tai Chi di lungo corso, si ritrovi nello stesso posto in cui si allena un campione assoluto dell'arte marziale che al contrario, gode della più alta considerazione da parte della comunità di arti marziali: il Brazilian Jiujitsu. Uno dei più grandi rappresentanti di sempre di questa disciplina dicevo, che risponde al nome di Marcelo Garcia. Un vero Maestro, ma sul serio. Così, quasi per caso e per gioco, decidono di improvvisare un incontro amichevole tra le due discipline. Già. Il praticante di Tai Chi, per nulla intimorito dal curriculum del suo 'avversario' (guardate su wikipedia chi è Marcelo Garcia se non sapete, e impallidite), accetta la sfida. Ora, a rigor di logica, per il Maestro brasiliano dovrebbe trattarsi della proverbiale 'passeggiata di salute', soprattutto considerata la fama, in negativo, di cui la disciplina di origine cinese gode.
Oh, intendiamoci, Garcia riesce comunque nel suo intento, e considerato che l'incontro si ferma una volta ottenuto il vantaggio della proiezione, non assistiamo alla completa devastazione del praticante cinese, ciò nondimeno...


Accade abbastanza sorprendentemente che il cinese non sia preda così facile, insomma, non solo 'vende cara la pelle', ma pure in alcune fasi del match riesce a portare del tutto fuori asse un mostro di bravura come Marcelo Garcia, guadagnando parecchio rispetto, dimostrando che forse forse, il Tai Chi in sé, contenga più della ginnastica dolce che solitamente si ve(n)de.
Perché dico ciò, potreste domandare. Perché se lo fa il Tai Chi, come disciplina prima ancora che come praticante singolo, quella di essere in grado di tenere testa - pur se per poco, pur con tutte le attenuanti del caso che volete - palesando in un paio di momenti di essere addirittura inaspettatamente spiazzante per uno abituato in teoria, a ben altre sfide (e ripeto, non uno qualsiasi, ma un gigante del jiujitsu mondialmente riconosciuto), allora, dico, perché noi no? Ognuno si dia la solita risposta. Che già conosciamo, il punto non è questo.
Il punto è l'impegno. Impegno per far si che l'Aikido, nella stessa situazione, non sia meno del Tai Chi, il punto è che noi, come praticanti di questa disciplina, dovremmo cercare un pochino più spesso di uscire dalla comfort zone di presunta competenza, per metterci davvero alla prova, dovremmo davvero risolvere il nodo intricatissimo di un keiko standardizzato verso il basso, e così condannato sempre di più al baratro.

sabato 2 marzo 2019

Trasmissione

Vista espressamente sotto la lente delle forme artistiche, l'Aikido è un'arte performativa molto complessa e come tale, profondamente estemporanea.
Vale a dire che per l'artista, fatto salvo alcune forme di conservazione come video o libri (con tutte le limitazioni che questi mezzi implicano), la possibilità di vedere i risultati del proprio lavoro, studio, enorme dispendio di energie - pure economiche - investite, si riduce notevolmente, arrivando al punto tale che la vera summa conclusiva di questo percorso finisce per coincidere con la ragione stessa per cui si è intrapresa la strada dell'insegnamento, ovvero il rispecchiarsi totalmente nella formazione e realizzazione completa di allievi che a loro volta divengano maestri, divulgatori dell'arte che ha avvolto l'insegnante per tutto l'arco della sua esistenza artistica.
Pertanto, quando questi è coinvolto nel processo pedagogico, è lucidamente consapevole che non possono esistere segreti di alcun tipo nella trasmissione agli allievi perché, in estrema ratio, a loro dovrà essere consegnato totalmente il sapere accumulato, sapere che ridotto in minimi termini non è che atavico desiderio di continuare a sopravvivere alla propria morte, continuare a esistere nell'altro, che la propria espressione artistica - impossibile da cristallizzare come nell'arte figurativa - si possa in qualche modo ricordare per davvero solo attraverso gli studenti diretti, che un domani ripercorreranno lo stesso tipo di percorso, in un ripetersi perpetuo che è il cuore della trasmissione stessa dell'arte, che ci sopravvive per coinvolgere e arricchire la vita del prossimo, in un futuro altrimenti precluso dalla caducità del singolo essere umano.

domenica 3 febbraio 2019

Frustrazione

Uno degli 'scatti' che per così dire hanno modificato la mia percezione della pratica, è stato il superamento di una fase di perpetua insoddisfazione, presente non solo nell'assidua frequentazione degli stage (regionali e nazionali), ma pure nella quotidianità dell'allenamento.
Questo inappagamento continuo è durato, ahimè, parecchi anni ed è, se si può azzardare un assioma, andato ad aumentare proporzionalmente al crescere della personale consapevolezza per la disciplina in sé.
Cosa c'era che non andava? Cosa mi faceva scendere dal tatami a fine keiko, in uno stato di depressione costante, che si ripresentava puntualmente alla successiva? Non solo, ma pure in forma di fantasma mi tormentava ogni qual vota il pensiero andava all'idea che quel giorno sarei dovuto tornare ad allenarmi. Prendere la borsa con il keikogi e avviarmi in palestra era uno sforzo davvero importante da affrontare e per poco - davvero poco - non ha ucciso totalmente la mia passione per l'Aikido e l'allenamento.
L'unico modo per poter aggredire il problema è stato ovviamente individuarlo, come primo atto: rimanere in costante autoanalisi, riconoscere le proprie mancanze in termini di concentrazione e attenzione alla materia, insomma considerare che la misura maggiore di responsabilità per questo stato d'animo fosse mia, sgorgasse dalla naturale indulgenza verso se stessi, che alimenta più o meno ognuno di noi.
Determinate e 'aggiustate' le responsabilità personali, sono passato a quelle che non dipendessero direttamente dal sottoscritto, ma che si originassero dunque al di fuori, quelle esterne che agivano su di me come soggetto passivo.
Anche questo è stato un processo non privo di sofferenza, ammettere le mancanze didattiche di certi insegnanti che - come chiunque - idealizzavo, e che non pensavo potessero essere fallibili (come del resto è ogni essere umano sulla faccia di questo pianeta).
Per certi versi si trattò di fare ordine (randori 乱取り, in senso lato) nei miei pensieri, regolare e controllare lo stato d'animo che pervadeva per tramutarlo, se possibile, in forza propositiva.
La chiave di volta, a questo punto dell'anamnesi, fu la determinazione specifica di ciò che stavo facendo a livello pratico, in parole povere: capire esattamente che cosa era l'Aikido, che cosa volevo dall'Aikido, e se l'Aikido stesso fosse davvero adatto a risolvere le mie inquietudini.
Questa maturità mi portò a considerare che non tutti gli insegnanti sono 'adatti' al sottoscritto, non dal punto di vista caratteriale, ma proprio dal lato specifico tecnico, che non tutto ciò che sul tatami vedo presentato come Aikido, io considero davvero in linea con la mia idea di Aikido e, infine ma davvero fondamentale: non esiste nessuna regola, legge, trattato o obbligo che mi costringa, come essere umano indipendente e dotato di intelletto, a dover accettare qualcosa che non riconosco e che, in ultima analisi, non mi aggrada, pena lo sconforto e la frustrazione mortale che porta alla scomparsa graduale e ineluttabile della passione per questa disciplina.
Se vi trovate in un momento simile a quello che ho attraversato, se pensavate di aver risolto e improvvisamente vi rendete conto di essere nuovamente intrappolati in questo stato d'animo, il disperare senza direzione è l'ultima delle reazioni consigliabili.


Fermarsi, riflettere e riconsiderare se stessi e la disciplina, è quanto di più sensato per evitare una maledettissima e inconcludente frustrazione, il cui risultato ultimo è farci detestare qualcosa per cui un tempo, magari, provavamo una passione profondissima. Non lasciate che accada.

sabato 26 maggio 2018

Ichi-go, ichi-e

A metà del XIX secolo, Ii Naosuke, Tairō dello shogunato Tokugawa, nel testo Chanoyu Ichie Shū, scrive:
"Grande attenzione dovrebbe essere posta nella cerimonia del tè, possiamo descriverla come 'una volta, un incontro'.
Anche se ospite e ospitati si possono incontrare spesso in società, ogni singolo incontro non può essere mai ripetuto in egual modo.
Visto con questa prospettiva, il singolo incontro è davvero un'occasione irripetibile. L'ospite di conseguenza, deve sincerarsi di avere la massima cura in ogni aspetto della cerimonia e dedicarsi completamente a garantire che nulla venga trascurato. Gli ospiti, da parte loro, devono comprendere che questo singolo incontro non potrà più ripetersi e, apprezzando come l'ospite lo ha impeccabilmente pianificato, dovrebbero parteciparvi con vera sincerità.
Questo è ciò che si intende per 'una volta, un incontro' (ichi-go, ichi-e)."
Questo è profondamente vero anche per l'Aikido.



giovedì 26 aprile 2018

Differenze nella pratica del Budo, tra Giappone e Occidente

Quella che segue è la trascrizione* in italiano del discorso fatto da Jordy Delage (Differences Between Japanese & Western Budo Practice, dal minuto 4:07), proprietario della Seido - Aikido & Kobudo Equipment e praticante di lungo corso di Aikido in Giappone.

Nulla di nuovo per chi frequenta il tatami del corso di Carmagnola, solo 'sfrutto' le parole autorevoli del protagonista del video per sottolinearlo ancora una volta, perché ne abbiate conferma da una voce che non è per forza la mia.

*[ Due parole sulla trascrizione/traduzione: in verità non lo è. Essendo in forma colloquiale, ho preferito farne un adattamento, dove naturalmente non manca qualche aggiustamento per rendere il discorso scritto scorrevole e comprensibile, evitando o annullando alcune espressioni gergali o ripetizioni eccessive. Buona lettura!]


"La raccolta di tecniche e l'idea che la conoscenza di molte tecniche renda più bravi, in realtà non so davvero da dove salti fuori, ma è specifica dell'occidente: in Giappone non è il quante tecniche conosci, ma il come esegui le tecniche che conosci.
Gli insegnanti che provano a mettere in pratica questo proposito cercano di trasmettere per esempio come 'entrare' in modo corretto - irimi nell'Aikido - attraverso i princìpi, non le tecniche, di conseguenza la loro volontà è quella di insegnare davvero poche tecniche, in cui studiare e trovare questi princìpi; nella relazione che si costruisce con questi maestri durante le lezioni, più ci si concentra su questo nello specifico e più si migliora davvero nell'Aikido in generale, dando infine al praticante la consapevolezza di un uso migliore del corpo per avere una migliore attitudine (shisei).
Beh, è un'esperienza che davvero si dovrebbe provare direttamente. Se si ha l'opportunità di venire in Giappone si potrà constatare che in una lezione probabilmente si eseguiranno tre, quattro, forse cinque tecniche in un'ora e stop; non si faranno più di cinque tecniche in un'ora, e molto probabilmente sempre con lo stesso compagno, perché solo così sarà possibile iniziare a conoscere il partner e solo dopo dieci, venti, trenta minuti si potrà cominciare a non pensare più a se stessi in termini di performance, senza che la mente paralizzi la pratica riflettendo eccessivamente.
Penso che il modo dei giapponesi di vedere le arti marziali, specialmente nel Budo, è più questione di sensazioni: pratica, pratica, pratica delle stesse tecniche ancora e ancora, piuttosto che collezionare un numero alto di tecniche diverse; divenire un esperto tecnicamente riguarda davvero la pratica in questo senso, e loro non parlano... non parlano di religione, non parlano di filosofia confondendola con i princìpi... niente di tutto ciò, solo insegnano, mostrano la tecnica, richiedendo al praticante di ripetere la stessa cosa per dieci, quindici minuti. Ogni cosa è basata sul concetto del dover praticare tanto per migliorare davvero.
Due ore di pratica in Francia probabilmente equivalgono a mezz'ora di pratica in Giappone.
La prima volta che sono andato all'Hombu dojo a una lezione di un'ora pensavo: "un'ora, ah, sono abituato a seminari di due, tre, quattro ore di pratica"... ero letteralmente morto dopo un'ora all'Hombu! Con l'insegnante che non parla, mostrando giusto qualcosa come quattro tecniche, questo effettivamente significa allenarsi per più di cinquanta minuti! Questo è davvero diverso rispetto a un seminario che si può fare in Francia".



Si potrebbe obbiettare, a lettura conclusa, che la prospettiva qui sia piuttosto limitata, infatti: non è detto che il corso e gli stage frequentati da Delage in Europa in gioventù, siano il modello generale e standard di quello che avviene in Europa, così come non è detto che il modello dell'Hombu con conseguente metodo di insegnamento e allenamento valga per l'intera isola giapponese (infatti così non è).
Fermo restando il punto di partenza che mi ha spinto a scriverne, però: c'è una ragione ben specifica per cui, per me, rimane costante lo sforzo e la ricerca nel mantenere una rigida metodologia di allenamento, e la ragione sta in larga parte nelle parole qui sopra.

A presto.

venerdì 20 aprile 2018

Lo stato dell'arte?

Sono alcune settimane che sulla mia home di facebook vedo comparire video più o meno spiritosi di sedicenti maestri che 'dimostrano' incredibili capacità energetiche.
Opportunamente messi alla prova da propri allievi, inscenano una serie di performance difficilmente ascrivibili al regno del tangibile.
Sotto ai medesimi video una prevedibilissima ridda di battute, da parte perlopiù di praticanti di aikido (i post sono di altrettanti aikidoka, eh), derisioni anche giustificatissime di quello che è un evidente spettacolo più vicino alla suggestione indotta pericolosamente, che a un comune embukai, o a una competizione vera e propria.
Ora. Non è mia intenzione cercare di comprendere quello che succede dentro ai video sopracitati (in alcuni casi valeva la pena farlo e l'ho fatto, per la maggior parte no, per amore di Lapalisse).
Sono decisamente più interessato a quello che è il ragionamento che sta dietro a chi i video li posta. E pure, di misura, anche a quello che pensano i vari commentatori di se stessi.
Lo sono per via del numero esponenzialmente crescente di tali video e della regolarità con cui compaiono.
Perché?
Perché, per esempio, non ho mai visto nessuno tra i miei contatti postare il video qui sotto?
Penso, senza tanti fronzoli, che le cose siano affatto correlate, e che tutto ciò vada a consolare il bias di una comunità che sempre di più perde di convinzione nei propri mezzi, nelle proprie capacità tecniche al punto tale che è decisamente più facile concentrarsi su uno spettacolo triste, piuttosto che affrontare la possibilità di essere protagonisti di un altrettanto spettacolo triste.
Che senso ha questo post? Indurre alla riflessione, se possibile, il più possibile, sullo stato della nostra arte, lasciando il corollario dragonballiano all'egotismo di qualcun altro.


lunedì 13 giugno 2016

Questa è competenza

Nel dodicesimo giorno del decimo mese, nel primo anno di Meiwa (1764), un samurai di nome Kimura Kyuhou, allievo nello stile di scherma Unchu-ryu, fondato da Itou Nyudo Kii Suketada, della provincia di Oushuu, decise di mettere per iscritto nel libretto Kenjutsu Fushiki Hen* (Ignoranza nella scherma), a memoria dei propri allievi, il discorso di cui era stato testimone tra il suo venerabile maestro, Hori Rinjitsu, e un visitatore straniero, riguardo il metodo peculiare con cui si formavano gli adepti di tale scuola.
Qui sotto troverete l'estratto più significativo, a mio parere, di tale incontro, trascritto dall'attentissimo Kimura.



L'ospite disse:«Maestro, hai distillato dal vuoto un unico principio della scherma. Anche se ciò che affermi è giusto, è molto avanzato e difficile da realizzare per l'inesperto. Benché i più dotati possono fare progressi perfezionando questo singolo principio, dire che si deve abbandonare ciò che si è imparato ricorda un monaco sulla via dell'illuminazione che armeggia con una spada; i moti confusi e impacciati della mente non aiutano a raggiungere questo stato. Fin dall'antichità i grandi comandanti guardavano con attenzione le tecniche poco sofisticate usate dai provinciali o durante gli addestramenti militari, traendone non pochi vantaggi. Anzi, queste personalità stimate affermano che non si dovrebbe perdere la semplicità. In modo simile, non si dovrebbero dimenticare le secche attraversate per arrivare alle acque profonde, o percorrere con noncuranza le colline per raggiungere le vette: segui solo il principio. In un primo tempo ci si dovrebbe dedicare semplicemente a quel che ci viene insegnato e il principio si svilupperà naturalmente».
Il maestro rispose:«Quel che dici è molto ragionevole. Nel guidare l'inesperto faccio proprio come hai detto. Comunque, non insegno schemi preordinati di mosse. Per questo, tra le persone che non hanno dimestichezza con la scherma, molti hanno l'impressione che la mia sia un'arte soltanto teorica. Per chi non fa parte della scuola è difficile comprendere. Con gli schemi preordinati, tutti compiono movimenti prestabiliti, non è realistico. Quindi, anche se all'inizio imparano per qualche tempo le forme, ciò non dura a lungo. In seguito li istruisco in modo realistico. Se in questa tecnica c'è qualche divergenza dal principio, è soltanto in quanto fondamento per procedere nell'arte basata sulla via dell'unico principio. Non è necessario abbandonare nulla.
Le cosiddette tecniche sono soltanto una serie di schemi prestabiliti. In questa scuola non si fa uso di tali schemi né si usano insiemi di forme. Le tecniche pratiche che nascono dal principio vengono mostrate utilizzando la via della risposta spontanea.
 Quando inizi c'è un'apertura, che ti permette di fare i primi passi per comprendere il principio unico. Gradualmente ti lasci travolgere e ti adatti al principio, la mente si calma e ti senti pieno d'energia. In una progressione naturale, le tue paure svaniscono, poi man mano che ti addentri nel pericolo sei costretto ad adottare tutte le posizioni, i fendenti e gli affondi contro il nemico.
 A questo punto insegno le tecniche che incorporano il principio del vuoto per fare pressione sul nemico; poi il principio del vuoto e la 'luna nell'acqua' si fondono e lo studente impara a intuire l'intenzione del nemico grazie al vuoto. Quando raggiunge questa capacità, sarà in grado di armonizzarsi e fondersi con la spinta impressa dall'avversario.
Questo è il cuore della scuola Yagyu. Quando lo studente avrà perfezionato tutti questi punti iniziali e avrà esplorato a fondo lo shinjutsu (tecniche della mente e dello spirito), raggiungerà il distacco dalla vita e dalla morte, e tecniche e teoria potranno essere messe da parte. Abbandonare tecniche e teoria è detto mushin, o 'non mente'. Quando ottieni la 'non mente', mente e corpo rispondono spontaneamente a quel che accade.
Avendo già raggiunto la padronanza tecnica e teorica, sarai naturalmente in grado di capire il livello dell'avversario, i suoi punti forti o deboli e la via per la vittoria. Non vi è alcuna situazione o categoria di persone in tutto il mondo a cui non si possa applicare quanto sopra. Sicuramente gli antichi maestri avevano queste doti».
L'ospite disse:«Indubbiamente ci sono altri modi per raggiungere questo livello avanzato. Non sono del tutto d'accordo con quello che hai detto. Tutte le varie case distinguono gli studenti principianti da quelli intermedi in base al numero di schemi che conoscono, e quando procedono a un livello superiore ci sono ancora più forme da imparare.
Innanzitutto l'insegnante non deve essere umile. Allo stesso modo, nella vita politica, un samurai di basso rango può diventare un uomo di una certa responsabilità, avere spesso a che fare con magistrati, e forse diventare anche un condottiero. Senza dubbio porre una grande attenzione alle questioni amministrative gli darà molti vantaggi. Quindi perché non dovresti insegnare usando esempi ben stabiliti?».
Il maestro rispose:«La tua fiducia ingenua in un progresso dal grado basilare a quello difficile, che nella scherma implica l'uso di coreografie prestabilite, è abbastanza ragionevole, visto che è il metodo adottato dalla maggioranza degli insegnanti.
Sia come sia, Kino Nyudo, fondatore di questa scuola, come il maestro Yagyu  Munenori di Washu e Miura Masanari di Busho, fondatore dello stile Mugan, rese onore al suo campo, e superò diverse scuole, vecchie e nuove. Prendendo con sé due o tre discepoli, andò a spiare nelle diverse scuole di Tobu. Tutte impiegavano kata in coppia e nessuna aveva raggiunto notevoli capacità. Tra coloro che mostravano una scarsa comprensione c'erano i maestri ortodossi che creavano e insegnavano questi kata. Anche se si dice l'uso dei kata rende facile capire e migliorare i punti essenziali dello stile, i risultati dovrebbero confermarlo. Di fatto i kata non sono in grado di condurre nessuno alla comprensione del principio. Dopo aver ottenuto un attestato di merito da una tradizione che misura i risultati conseguiti in base al progresso in questi kata, difficilmente ci si renderà conto dell'errore. Non c'è nulla che contraddistingue la verità. Pertanto è senza dubbio molto difficile iniziare chi ha raggiunto tale livello. Ecco perché fin dall'inizio si dovrebbe sviluppare la mente del principiante facendogli cogliere qualche barlume del principio: per mezzo del vuoto (kyo) svilupperà il reale (jitsu). Dapprima percepirà solo debolmente il principio, come un filo o una nebbia, ma via via che accumula intuizioni, progredirà e raggiungerà la comprensione tecnica e teorica. Questa è competenza. Questo dovrebbero tramandare i maestri».


* Nota bibliografica: Il teso integrale (presumo, mi devo fidare del curatore che lo ha selezionato per inserirlo nell'antologia), si trova in La mente del Samurai, a cura di C. Hellman, edizioni Astrolabio, Roma 2011, cap. V, p. 110.