venerdì 8 giugno 2012

Misunderstanding

"Cerco sempre di fare musica per come sono io. La ragione per cui è difficile, è che cambio continuamente".

Charles Mingus


La domanda è: quanto si rischia, nella pratica, di credere di fare un qualcosa, mentre in realtà si sta facendo tutt'altro?
O per essere più spicci: quanto siamo convinti di fare Aikido, quando poi tutto ciò che ci riduciamo a mostrare, non è altro che una tristissima pantomima?

Ecco, non so voi, ma io della pantomima sono stanco.
Sono arcistufo di sprecare del tempo.
Già, il tempo. Se c'è una cosa a cui dovremmo ricondurci (una delle), quando siamo impegnati nella pratica (quale pratica è ancora tutta da stabilirsi) sul tatami, è proprio nel cercare di ottimizzare al meglio quello che è il tempo che dedichiamo ad essa.
E se tanto mi da tanto (e né voi né io si è dei pazzi, oltre che degli illusi), il tempo da dedicare alla pratica del Budo (disclaimer di questo blog: l'Aikido per il sottoscritto è Budo, contestualizzando, tutto il resto non mi interessa e se si, in misura comunque decisamente minore), è sempre ridottissimo, rispetto alla miriade di impegni che ci vedono coinvolti quotidianamente, tra lavoro, famiglia e rapporti sociali in genere.
Quindi, dopo questa sottospecie di premessa bella contorta, torniamo a noi.

E' davvero necessario inquadrare attentamente ciò che ci si appresta a cominciare, quando si indossano gi e hakama, e si pretende di "fare Aikido".
Perché, più frequentemente di quel che si crede, si finisce con il fraintendere (in buona fede anche, perché no?),  non solo negli obiettivi (che già di suo, sono un bel grattacapo), ma addirittura in partenza, ovvero nell'atto stesso in cui fisicamente esprimiamo dei movimenti, delle forme, che illudono la nostra parte cosciente, nella convinzione che esse stesse siano l'oggetto principale del nostro allenamento, che esse stesse siano l'Aikido.
Ecco, no.
Le forme sono forme, non sono Aikido.
Sono l'introduzione all'Aikido semmai, ma non l'Aikido.
Quando siamo impegnati nell'esecuzione del nostro yonkyo più bello, non è nello yonkyo che stiamo centrando davvero lo scopo. Crediamo che sia così, certo, ma non è lì che dovrebbe esser focalizzato il nostro studio.
Il nostro studio, per scongiurare la pantomima di cui inizialmente parlavo, è nel cercare di far sì che lo yonkyo da noi messo in scena (vi prego di notare questo ossimoro, ben più che linguistico), funzioni.
Ecco, mi è già capitato di affrontare tale tema su questo medesimo, ma è bene per la comprensione del discorso generale, fare degli ulteriori appunti.
Yonkyo, se spiegato pazientemente per una decina di minuti, può farlo anche il mio nipotino di cinque anni (a proposito, ciao Riccardo!).
Dunque, sta mio nipote davvero facendo dell'Aikido? Sono ipermegastrasicuro che unanimamente si è levato da parte vostra (con anche un certo piglio di sufficiente sarcasmo), un corale ed unisono "no!"
No, infatti.
Ma perché? Perché è una vuota imitazione di un movimento, più o meno complesso, ma completamente privo di significato. Non ha un fine. E se non ha un fine, non può certo avere una funzione da espletare, giusto?
Quando noi, orgogliosissimi, realizziamo il nostro yonkyo nel dojo invece, pensiamo che questo in effetti un fine ce l'abbia, che sia compiere la sua funzione, che è quella del neutralizzare, attraverso la tecnica, un attacco. E per far ciò, impariamo tutta una serie di movimenti, in cui andremo, per ultimo, a mettere la nostra amata tecnica. Ma di nuovo, siamo sicuri che tutto questo sia Aikido?
Non è pantomima anche questa? Certo, più complessa, perchè è l'unione di una serie di movimenti schematici, ma realizzabile solo a patto che l'uke con cui stiamo lavorando, sia nelle nostre mani (perdonate la violenza provocatoria), niente più che un fantoccio.
Ma se dunque di questo si tratta, allora la funzione che credevamo possibile, è vanificata del tutto, da funzione passa irrimediabilmente a finzione.

Proprio qui, proprio ora, diviene quindi indispensabile, ragione principale a cui dedicarsi con tutto l'impegno possibile, comprendere.

Comprendere che nel Budo è essenziale, vitale, la presenza delle "due ruote" ( ve l'avevo anticipata, la pluralità di significati): interferenza e armonia.
Perché è così in natura, perché è così l'anima stessa del combattimento.

In natura, l'armonia esiste, perché essa stessa è equilibrio di contrasti.
E a pensarci bene, seguendo questa logica di cui l'approssimazione è colpa solo mia, e qui mi scuso, che senso ha praticare delle forme che divengono effettivamente prive di significato, se il nostro partner è burattino senza di vita?
L'Aikido funziona contro chi ci aggredisce, non contro chi accomoda i nostri errori.
Quello che avviene senza contrasti, non ha bisogno di Aikido.
E senza questo bisogno, quello che accade è messa in scena, non verità. E voi ormai, dovreste sapere quanto mi sta a cuore questa faccenda della verità.

Comprendere, diviene quindi vitale. Perché solo grazie a questa comprensione (faccio quel che faccio, perché so quel che faccio), è possibile costruire.
La costruzione è logica (la logica è qualcosa di cui sempre ho subito il fascino), il cui fine (funzione), è quello di arrivare ad essere davvero liberi.
Ma liberi di una libertà "dotta", che non si vanifica da sola, ma produce.
Per questo pratichiamo il kihon no kata, perché se no?
E grazie a questo studio matto e disperatissimo, che sarà forse possibile scorgere la vera verità, che non è fare tutto quello che ci pare, ma fare la cosa giusta al momento giusto, con piena coscienza.


2 commenti:

  1. Ho sempre pensato che uno degli aspetti più interessanti e utili dell'aikido sia la sua perfetta aderenza alle dinamiche della vita quotidiana osservate e intese come occasione evolutiva, di crescita.
    Tutti, a tutte le età e a seconda del nostro livello evolutivo (quindi non è solo una questione anagrafica), impariamo, in un primo momento, per imitazione. Forse non solo per imitazione, ma osservando i bambini mi pare di poter dire che il loro istinto sia di imitare. Un suono, un gesto, un modo di esprimere un'emozione.
    La vera azione è quella vivente, quella che nasce, continua e si esaurisce in presenta di un ben cosciente moto volitivo. L'azione deve portare in se l'elemento originario che l'ha generata, ne deve essere pregna, non devono esserci vuoti e questa densità, per chi ha la fortuna di sperimentarla, deve essere una musica meravigliosa. Non esistono giusta velocità o giusta lentezza, non esiste giusto o sbagliato, se il gesto e l'azione sono in accordo la volontà che li ha mossi, e questa con il pensiero che l'ha generata.
    Torniamo quindi all'imitazione. Anche l'imitazione di per se può essere uno strumento di apprendimento se ci porta sempre più vicino a esercitare la volontà del moto originario. Volere l'azione, provare piacere nel muovere un dito, un piede, perché sono io che lo muovo, perché sono io che voglio quel movimento fatto così, e poco importa che mi sia ispirata a un movimento altrui se sono io, ora, a farlo in modo cosciente. In quel movimento c'è la mia volontà vivente, libera di volere.
    Da questa ricerca non può che discendere tutto il resto. Nell'aikido, ad esempio, ci si trova a essere soddisfatti di come si esegue una tecnica fino a quando non ci si annoia ad eseguirla. Guarda caso questo momento coincide quasi sempre con quello nel quale ci accorgiamo che, come dici tu, non funziona. Allora, chi ha voglia, prova a togliere un altro strato di ruggine, e prova a capire perché. Si scopre allora che anche se la mano era lì dove doveva essere (perché si è molto bravi ad imitare il maestro, ad esempio), non aveva il giusto "peso", o non aveva la giusta "presenza" o non aveva la giusta "intenzione". Era lì, e basta, ma senza volontà. Non è facile accorgersi dal di fuori della differenza che c'è tra essere in un posto e voler essere in quel posto.
    Concludo dicendo che il desiderio di ottenere buone "performance" di esecuzione, se da un lato ci istiga a praticare l'aikido con buona volontà, dall'altro lato, spesso, non allena la volontà giusta. Anche la volontà deve evolvere...
    Provare, con la dovuta cautela, e la giusta attenzione al gioco e al divertimento - che un'arte deve comunque mantenere - ad addentrarsi nelle intricate e disorientanti vie dell'originalità, garantisce lunga vita alla pratica e evoluzioni infinite.
    Malù

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  2. Non posso non essere d'accordo con te, Malù.
    L'imitazione è lo stadio iniziale del percorso, e rimane metodo pedagogico per eccellenza, anche quando si è progrediti e ci si sente affrancati. Ma è diverso il senso (fisco, filosofico?), che daremo al gesto. Ora è una strada verso la concretezza, non è più confusa con la concretezza (ecco, la confusione, la giusta confusione del principiante).
    Ed è una strada che come inviti, deve avere una volontà precisa, che si è liberata di un desiderio estetico, il bel gesto, ma va più in profondità, o forse (dico forse e lo preciso, perché di significato di grande peso nel mio percorso personale) l'abbandona, semplicemente lascia scivolare.
    Il tutto scivola, e quello che chiami disorientante via dell'originalità, per me diviene lo scorgere l'orizzonte dell'origine, vera e propria. La ricerca è per la Verità. E questo continuo "scava e scava", togliere ruggine per parafrasarti, è il mio/nostro atto concreto.
    Grazie ancora.

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